giovedì 5 settembre 2013

Venezia 70: Locke

Martedì 3 settembre, ore 15, Movie Village:
Io (ingurgitando amareggiata un tristissimo panino): “Tom Hardy mi ha parecchio deluso. Se ne stava lì, annoiato, rispondeva con strafottenza alle domande dei giornalisti e masticava la gomma con aria scocciata”.
Michi (ingurgitando una tristissima pizza margherita): “Magari si è semplicemente svegliato male…”
Io: “Ma è il suo lavoro! Sta lì a sorridere per mezz’oretta e poi torna in hotel a odiare il mondo. Che delusione.”

Martedì 3 settembre, ore 19, Palabiennale:
Io (occhi sgranati, camminata lenta): “Oh-mio-Dio”.
Michi (occhi ancora più sgranati, camminata ancora più lenta): “Oh-mio-Dio.”
Io: “Adoro Tom Hardy”
Michi: “Adoro Tom Hardy”.

Bipolarismo? No, abbiamo visto Locke.


Locke è il biglietto da visita con cui Steven Knight si presenta alla 70° Mostra del Cinema di Venezia, ingiustamente inserito Fuori Concorso, ingiustamente passato in sordina.

SPOILER ALERT: Se siete per l’effetto sorpresa, non proseguite nella lettura. Se la curiosità è troppo forte, leggete e stupitevi.

“Locke” è una pellicola relativamente breve: Steven Knight condensa in soli 85 minuti la parabola discendente di Ivan Locke (Tom Hardy), costruttore edile e padre di famiglia, la cui intera esistenza subisce irreversibili stravolgimenti nell’arco fugace di una notte inglese. Locke è un instancabile lavoratore e un marito innamorato, ma quella notte, pochi mesi prima, aveva commesso un unico, fatale errore: seguiva la costruzione di un edificio lontano da casa, si sentiva solo e aveva incontrato Bethany, triste, depressa e altrettanto sola. I due avevano avuto un’avventura, senza significato ma non senza conseguenze: Bethany era rimasta incinta, aveva deciso di tenere il bambino e adesso, con due mesi di anticipo, era al St Mary’s Hospital pronta a partorire. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Aspettate. Ivan Locke possiede un profondo, lacerante senso del dovere, un radicale senso di responsabilità per cui avverte di dover essere con lei al momento della nascita, anche se non la conosce affatto e non l’ha mai più vista dopo allora. Anche se, come inevitabilmente succede, questo significa dover confessare tutto alla moglie, mettere a repentaglio il suo matrimonio e non essere presente ad un evento fondamentale per la sua carriera lavorativa. Così Ivan guida, guida senza fermarsi verso una donna che non ama per “mettere a posto al casino che ha combinato”, lasciandosi alle spalle una vita felice che felice non lo sarà più. Ammirevole direte, ma dove sta la meraviglia? Adesso arriva: tutta la vicenda di Locke si svolge solo ed esclusivamente dentro la sua macchina; la narrazione si consuma in pochi metri quadri, scandita e delineata dalle continue telefonate che Ivan riceve (dalla moglie, da Bethany, dal suo braccio destro, dal suo capo), e che svelano gradualmente la storia allo spettatore. C’è un solo personaggio, Tom Hardy, che interagisce con se stesso e con le altri voci virtuali, a cui è affidato il difficilissimo compito di interiorizzare un dramma con la sola forza della propria espressività. E di virtuosismo espressivo effettivamente si tratta, perché Ivan non scende mai dalla macchina ma viene inquadrato sempre seduto, al buio, di sbieco, e non può far altro che contare sul proprio volto e sulla propria voce.
Steven Kinight osa, ma l’azzardo è riuscito e la platea è completamente in suo potere, in un flusso crescente di attesa e tensione. Gli applausi, meritati, meritatissimi, vanno anche a un Tom Hardy mai tanto brillante e intenso.


Vi lascio con il trailer... Enjoy!

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